Con la morte di Mario Perniola se ne va un grande umanista italiano. Ha speso così tanto tempo nel criticare la logica dei riflettori permanenti, che i riflettori si sono girati tutti dall’altra parte di fronte alla sua scomparsa, lasciando alle pagine culturali il compito di ricordare uno studioso che sarebbe errato definire scomodo. Scomodo è chi decide di occupare lo spazio mediatico con il risalto della propria eterodossia, ostentando il proprio essere controcorrente e pronunciando qualche verità. Perniola si limitava a studiare, elaborare un pensiero critico e scrivere. Probabilmente lui era comodissimo: era la realtà che lui lucidamente descriveva che doveva aggiustarsi le pieghe del vestito quando si accorgeva che Perniola lo aveva capito benissimo che era all’ultima moda ma della taglia sbagliata. La scomodità di un umanista è nella capacità del suo pensiero di agitare la nostra piatta e superficiale visione delle cose e Perniola è stato molto di più che il nostro Mc Luhan o il nostro Debord, a cui era peraltro legato da una forte amicizia come ha ricordato nel suo bell’articolo Giuliano Galletta su Il Secolo XIX. Mario Perniola muore agli albori di un anno che avrebbe detestato, dal momento che sarà in parte dedicato a celebrare l’anniversario del ’68 e ai suoi movimenti, che Perniola si dedicò a demistificare e a rivelare nella loro autentica essenza nel suo ‘Berlusconi o il ’68 realizzato’, pubblicato da Mimesis nel 2011. Un saggio che con lo stesso angolo visuale adottato da Hobsbawn ne ‘Il secolo breve’ identificava nel ’68 il momento di svolta a favore di un individualismo sfrenato e dell’istituzione di un culto del gesto creativo che non potevano che sfociare nel nichilismo e nella fine del riconoscimento di qualunque competenza. Per Perniola la battaglia contro l’autorità celava la contestazione del sapere informato; l’apparente iconoclastia era in realtà la fondamenta della deregulation. Una protervia che sarebbe arrivata a contestare anche la medicina: nella sfera di cristallo della ragione Perniola pronosticò anche i no vax. I fili li tirava comunque un capitalismo che aveva bisogno di riconfigurarsi e di liberarsi di tutti gli orpelli. A partire da quella noiosa ma ben salariata classe media che venne ripudiata per i suoi costumi da figli che nel loro volere tutto si ritrovarono, con le dovute eccezioni, a non avere niente se non un posto in coda per l’ultimo smartphone. Nel criticare il ’68 o i media nei suoi, da riscoprire in quest’epoca di news e fake news all’ammasso e all’arma bianca, ‘Contro la comunicazione’ e ‘Miracoli e traumi della comunicazione’ Perniola difendeva lo spirito critico e la conoscenza dura, solida, quella fondata sui libri e sull’approfondimento. Difendeva il nocciolo concreto della realtà e spesso si ritrovava a citare nei suoi testi Roland Barthes, un altro grande demistificatore che tentò di indagare i meandri di quell’irriducibile fonte di autenticità che è il nostri corpo: Barthes in ‘Barthes di Roland Barthes’ e Perniola in ‘Il sex appeal dell’inorganico’. L’andatura di Perniola era quella del pamphlet, del jeb sferrato contro avversari così sicuri di sé da avere sempre la guardia abbassata. Non solo scriveva cose intelligenti, ma le scriveva bene, con una competenza stilistica che oltre ad evitargli una contraddizione gli meritava l’attenzione di chi sa che le parole sono importanti. La sua scomparsa è una tragedia, perché ci priva del suo pensiero, ma giunta ora non solo ha risparmiato a lui il caravan serraglio celebrativo del 1968, ma anche il ritorno di Berlusconi nelle vesti addirittura di baluardo contro la superficialità cubica delle sette cibernetiche fondate sulle piattaforme e il 6 politico. Ci mancherà, Perniola, e abbiamo, noi che crediamo ancora nell’umanesimo, il dovere di provare ad essere all’altezza del suo insegnamento.
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Lo sport, e nel nostro specifico caso nazionale, il calcio, è un fatto sociale. Non perché sia un riflesso della società, ma perché ne è una essenziale componente materiale. Osservare lo sport come se fosse uno specchio di quello che noi siamo come soggetto collettivo è un abbaglio retorico, dal momento che presuppone che l’abilità e il successo in un determinato gioco rappresentino la capacità di un’economia o la qualità di una classe politica. Un rapporto di causa ed effetto che non ha alcun fondamento se non, appunto, quello della facile semplificazione. In questo modo lo sport diventa uno story telling e cessa di essere quello che è davvero: una storia che si costruisce giocando. Lo sport è un fatto che accade, si dipana e contribuisce, con tutti gli altri, a comporre l’identità storica, sempre incerta e sempre in divenire, di un popolo. Diversi libri, soprattutto negli ultimi anni, hanno saputo rappresentare questa componente dello sport e a proposito del calcio possiamo citare ‘Ajax la squadra del ghetto’ di Simon Kuper (che parla anche di Hanna Frank ma soprattutto dice un bel po’ di quelle cose che non si sanno mai abbastanza) e ‘Vincere o morire’ di Enrico Brizzi, che ci racconta come l’epoca più gloriosa del nostro calcio – quella che va dal 1934 al 1940 – coincide con il climax del ventennio più nero e tragico dell’Italia. Il fatto è che nonostante quello che amano dire molti intellettuali lo sport è quello che piace agli uomini, per citare Cyrl L. R. James, uno studioso di importanza capitale per le periferie del mondo e il post colonialismo, che sui campi da cricket apprese altrettante verità che nei romanzieri inglesi che studiava ed amava. Lo sport non racconta nulla, di per sé, ma esige il racconto in quanto vicenda umana. Per questo inauguriamo oggi, in questo giorno di sconfitta, la nuova rubrica del blog Book Sport. L’assassinio di Daphne Galizia, la giornalista maltese protagonista di importanti inchieste sulla finanza occulta, fa deflagrare molte verità sul nostro tempo. Ciò che colpisce non è soltanto che nella presunta civile Europa si possa morire perché si è cercato e raccontato la verità; ma l’apparente scarto tra la marginalità del luogo in cui questa condanna a morte è stata eseguita e l’intreccio di interessi di cui è l’epicentro. Così come un tempo i fuorilegge fuggivano in luoghi estremi e gli Stati Nazione esiliavano in regioni altrettanto remote gli indesiderati – la colonia penale australiana, i campi di prigionia della Nuova Caledonia o della Guyana Francese, la stessa Legione Straniera o i gulag siberiani – oggi nelle isole minori di oceani ormai completamente esplorati si lavano i panni sporchi del capitale. Le Isole Cayman, o Malta. Malta, un posto del tutto periferico, in cui vengono fatti sbarcare e circolare in cerca di souvenir i passeggeri delle navi da crociera nelle rotte mediterranee; un’isola che per essere presente nella letteratura ha dovuto aspettare uno come Thomas Pynchon, avvezzo alla letteratura obliqua, alla tracciatura di mappe narrative di difficile interpretazione, al dettaglio spiazzante, che nell’irrilevante La Valletta ambientò parte del suo V. Sembra quasi che mentre il mondo viene rimpicciolito e accorciato dalla velocità e la pervasività delle nostre tecnologie, i luoghi marginali riacquistino valore: perché ogni rete ha i suoi nodi. E il denaro del tutto smaterializzato delle transazioni poco lecite o illegali; questo denaro clandestino di cui è facile perdere le tracce ma da qualche parte deve pure rispuntare perché possa essere accumulato e speso è il caveaux in cui cronisti come Daphne Galizia riescono talora ad intromettersi. Non per rubare ma per svelare un segreto oscuro, come accade in quel gioiello di cinematografia e sceneggiatura che è Inside Man di Spike Lee. Se per Joseph Conrad il cuore oscuro della tenebra occidentale era un accampamento nell’Africa nera finanziato dall’avidità occidentale, oggi è la banca stessa a nascondersi in qualche interstizio del mondo dove a ribollire è ancora una volta, l’orrore. Il nostro. La tragedia di Daphne è però anche una tragedia classica, come dimostrerebbe la riscoperta del libro dimenticato Un Sudario non ha Tasche. Un libro necessario, di cui parliamo nella sezione Libri Ritrovati del Blog. Nel post sull’agonia di Rolling Stone ho fatto riferimento al saggio narrativo di Jonathan Franzen ‘Il Progetto Kraus’. Uno dei libri che Sandro, il protagonista di ‘Ogni Maledetto Martedì’ ha deciso di provare a leggere perché “trovare qualcuno che spieghi le cose orribili che il web può fare alla lingua e alla scrittura è proprio difficile.”
Ne parliamo approfonditamente nella sezione Libri Ritrovati, sottolineando che il vero ritrovato è, attraverso Franzen, Karl Kraus, il Grande Odiatore. Un autore la cui opera rappresenta, per Eric Hobsbawn , l’epicentro del terremoto che sconvolse la cultura e l’umanità nei primi trent’anni del XX Secolo. Il Secolo scorso. Sapete quale è la cosa più folle riguardo a ciò che nelle aziende dell’Information & Communication Technology chiamano killer application? E’ che sono considerate una cosa positiva, una benedizione, la chiave di volta di un luminoso successo. In concreto sono servizi che ne uccidono altri, rendendoli così obsoleti da ridurli letteralmente in cenere. Sono dei prodotti assetati di sangue tipo le email, che annientano le lettere spedite per posta, o le schede di memoria digitale che fanno strage dei rullini fotografici. Le killer application uccidono le vecchie cose in nome della santa divinità del nuovo, in realtà un mostro capriccioso e vorace, all’altare del quale portiamo ogni giorno doni e sacrifici. Qualcuno, ovviamente, lo chiama progresso, facendo finta di non accorgersi degli effetti collaterali. I lavoratori della Kodak, ad esempio. Ed anche chi se ne accorge, o diventa un luddista o spera che le killer application possano dare più opportunità di quelle spedite nel magazzino del vintage. Ma è davvero difficile accettare questo processo quando ad essere sterminate sono le nostre vecchie cose, come le piccole librerie a cui abbiamo dedicato una parte di questo blog; quando a gettare la spugna dopo una strenua resistenza sono prodotti culturali che hanno segnato un’epoca. L’agonia della rivista Rolling Stone è così dilaniante che l’unica consolazione è che Hunter S. Thompson si sia sparato prima di vederne la fine; dopo il patetico tentativo in extremis da parte del fondatore ed editore della rivista Jann Wenner di salvarsi dal fallimento affidandosi a improbabili fondi di investimento asiatici, come una squadra di calcio qualsiasi. Anche se per noi lettori, il vero cruccio è quello che non ci sia proprio il vecchio Doc a raccontarci questo delirio e paura a Singapore, a scrivere l’epitaffio di quella che è stata una delle più importanti riviste del… secolo scorso. Rolling Stone è definita la rivista della controcultura hippie e in quel milieu è certamente nata. Ma il suo successo è stato decretato dalla middle class che dominò lo scenario sociale occidentale sino all’era Reagan. Esattamente come Playboy proponeva nelle sue pagine i racconti di premi Nobel per la letteratura e le interviste a Martin Luther King, Rolling Stone affiancava alla lista dei 100 chitarristi migliori di tutti i tempi i reportage politici del suddetto geniale pazzoide Hunter S. Thompson: letteratura allo stato brado. Quello che per Hugh Hefner era la narrativa, per Jeff Wenner era la politica. Entrambi vendevano un prodotto di massa, ma volevano essere qualcosa di più, volevano essere impegnati. E ciò che li rendeva impegnati era la scrittura. Sia Playboy che Rolling Stone non volevano essere solo sfogliati ma essere letti. Non volevano abbassare la cultura alta ma usare la cultura pop per rendere omaggio alla cultura alta. Per loro essere al passo con i Jones significava poter leggere Kurt Vonnegut o sostenere Mc Govern contro Nixon. Avevano così rispetto per i loro lettori da sapere che agli impiegati non sarebbero bastate le foto di nudo e agli studenti le interviste alle rock star. Per questo rappresentano un epoca quanto Bob Kennedy e il keynesismo. Cercavano e creavano linguaggi, che è poi quello che fa la letteratura. Oggi i media, a partire dai social network, come è ben spiegato da Jonathan Franzen ne Il Progetto Kraus (e Karl Kraus è stato il primo gonzo giornalista), distruggono il linguaggio appiattendolo e abbassandolo, dimostrando prima di tutto un disprezzo brutale per i loro fruitori. Che poi siamo noi. Rolling Stone muore ucciso dalle killer application ma ha una forza che niente potrà cancellare: possiamo ancora prenderlo in mano, consultarlo, leggerlo. Come un libro. Il computer ha la stessa squisita spietatezza della catena di montaggio (Edoardo Sanguineti, ‘Tesi su Il Manifesto’, 1998) I licenziamenti via PEC che continuano a raggiungere i lavoratori di Ericsson alle loro postazioni nel sedicente Villaggio High Tech della collina di Erzelli a Genova, costringe a prendere definitivamente atto che il capitalismo muta il proprio linguaggio, le proprie tecnologie, il proprio modo di produzione ma non la sua logica. Una logica basata sullo sfruttamento dell’uomo sull’uomo. L’idea che i settori innovativi dell’information & communication technology e l’elevata scolarizzazione proteggessero i lavoratori dalle dinamiche delle crisi cicliche del capitalismo era semplicemente uno dei tanti inganni sotto forma di utopia del progresso inarrestabile promulgato dai padroni. Che questi ultimi siano degli Scrooge in bombetta, dei Vittorio Valletta in manicotto o dei top manager con palmare, il risultato non cambia. La sinistra “diversamente entusiasta” dei progressi del capitale ha molto da interrogarsi sui suoi abbagli, che coinvolgono sia i “riformisti asettici” del Pd – molto propensi a pensare che il nuovo contenga in sé il progresso – sia gli anarco radicali che nella creatività fuori degli schemi vedono baluginare il lampo profetico della rivoluzione. I primi sono quelli che pensano che il nuovo capitalismo possa essere governato senza prima averlo criticato e contrastato; i secondi sono quelli che affiggono manifesti a lutto per Steve Jobs, sacrificando alla memoria del genio talentuoso e sognatore la consapevolezza dei misfatti nella dislocazione della produzione e nel pionierismo del licenziamento via cavo (a banda ultra larga, sia chiaro). Questa prosecuzione dello sfruttamento con altri mezzi trovava già il suo pronostico nel saggio di Edoardo Sanguineti “Tesi su Il Manifesto’ raccolto ne ‘Il chierico organico’. dove si comprende che l’unica cosa che potrebbe cambiare le cose, per quei lavoratori di Ericsson e per tanti altri, è una politica migliore. Ma per una politica migliore sarebbe necessario recuperare, tra le tante cose che una sinistra riformista o meno dovrebbe essere in grado di conservare, una capacità di lettura e critica della realtà che non si misuri in bit ma in tempo storico e che sia in grado di recuperare la dimensione della realtà materiale. Quello che è successo ai lavoratori di Ericsson, di cui sono stato collega, non deve suscitare una scontata solidarietà e una comoda indignazione, ma obbligare all’autocoscienza. Di classe. Non si impara il latino e il greco per parlare queste lingue, per fare i camerieri o gli interpreti o che so io. Si imparano per conoscere la civiltà dei due popoli, la cui vita si pone come base della cultura mondiale. La lingua latina o greca si impara secondo grammatica, un po’ meccanicamente: ma c’è molta esagerazione nell’accusa di meccanicità e aridità. Si ha a che fare con dei ragazzetti, ai quali occorre far contrarre certe abitudini di diligenza, di esattezza, di compostezza fisica, di concentrazione psichica in determinati oggetti. Uno studioso di trenta-quarant’anni sarebbe capace di stare a tavolino sedici ore filate, se da bambino non avesse «coattivamente», per «coercizione meccanica» assunto le abitudini psicofisiche conformi? Se si vogliono allevare anche degli studiosi, occorre incominciare da lì e occorre premere su tutti per avere quelle migliaia, o centinaia, o anche solo dozzine di studiosi di gran nerbo, di cui ogni civiltà ha bisogno. […] Anche lo studio è un mestiere e molto faticoso, con un suo speciale tirocinio anche nervoso-muscolare, oltre che intellettuale: è un processo di adattamento, è un abito acquisito con lo sforzo e il dolore e la noia. La partecipazione di più larghe masse alla scuola media tende a rallentare la disciplina dello studio, a domandare facilitazioni. Molti pensano addirittura che la difficoltà sia artificiale, perché sono abituati a considerare lavoro e fatica solo il lavoro manuale. È una quistione complessa. Certo il ragazzo di una famiglia tradizionalmente di intellettuali supera più facilmente il processo di adattamento psicofisico [oggi meno vero, o è vero in un senso diverso]: egli già entrando la prima volta in classe ha parecchi punti di vantaggio sugli altri scolari, ha un’ambientazione già acquisita per le abitudini famigliari. Così il figlio di un operaio di città soffre meno entrando in fabbrica di un ragazzo di contadini o di un contadino già sviluppato per la vita dei campi. Ecco perché molti del popolo pensano che nella difficoltà dello studio ci sia un trucco a loro danno; vedono il signore compiere con scioltezza e con apparente facilità il lavoro che ai loro figli costa lacrime e sangue, e pensano ci sia un trucco. In una nuova situazione politica, queste quistioni diventeranno asprissime e occorrerà resistere alla tendenza di rendere facile ciò che non può esserlo senza essere snaturato. Se si vorrà creare un nuovo corpo di intellettuali, fino alle più alte cime, da uno strato sociale che tradizionalmente non ha sviluppato le attitudini psico-fisiche adeguate, si dovranno superare difficoltà inaudite. [Antonio Gramsci, Quaderni dal Carcere, 4 [XIII], 55] Come ogni anno il primo giorno di scuola, che in Liguria è stato oggi, è occasione di attenzione mediatica. Ma l’esposizione spettacolare dello scolaro che varca la soglia dell’istituzione educativa è ormai un’allegoria così come la descriveva Walter Benjamin: un’immagine completamente priva di aura, storicamente morta. Pura superficie, senza più nessun rapporto con i valori che quell’immagine avevano fondato e prodotto. La scuola così come le generazioni sino alla mia l’hanno pensata è legata in modo indissolubile alla società industriale e fordista. Ed è in questo senso che la descrive Antonio Gramsci in un passo molto citato dei Quaderni. Purtroppo il passo è tanto letto ed orecchiato quanto poco studiato. E’ prevalentemente ricordato per un motivo tanto nobile quanto sbagliato, ovvero la giustificazione del latino e del greco come materie di insegnamento; oltre che per la sua critica della divisione di classe dei percorsi scolastici, quando destinano i proletari alla scuola professionale e i borghesi ai licei. Questa attenzione a dettagli estratti dal contesto originario, per usarli in un certo dibattito contemporaneo, fa perdere di vista il punto decisivo del passo riportato, che non è in una difesa strenua delle lingue morte – che anzi sono date come discipline storicamente sostituibili - ma nella congiunzione che Gramsi istituisce tra studio e mestiere, con la conseguente assunzione del fatto che senza sforzo, dolore e noia lo studio, semplicemente, non è. Di qui l’ammonimento per cui occorrerà resistere alla tendenza di rendere facile ciò che non può esserlo senza essere snaturato. Non abbiamo resistito. Le istanze individualistiche, ammantate dai miti della creatività ed il talento, (miti propri anche di molta sinistra) hanno creato il terreno su cui si sta edificando l’attuale scuola, che diventa facile perché tanto i percorsi di promozione sociale stanno fuori dalla scuola, almeno dalla scuola pubblica. E questo accade soprattutto perché l’appartato di produzione ha bisogno di meno lavoratori disciplinati, anche formati, ma di un numero sempre maggiore di consumatori liberi da qualunque fatica. Prima quindi di suggerire qualche libro in merito a questa regressione del valore dell’istruzione come mestiere; si tratta di chiarire che la quistione, anche per un reader, è se il leggere sia o no, prima di tutto, studiare. Una quistione che è prima di tutto degli insegnanti di italiano, dei genitori lettori e del loro rapporto con la disciplina e la fatica della lettura. Nota: la scelta dell'immagine di una edizione inglese dei Quaderni è provocatoriamente voluta. Purtroppo infatti un ritorno a Gramsci si avverte molto di più nell'accademia anglosassone che in quelli italiana. Inocula il mio germe Forse se smetto di respirare se ne va via da se Cos'è? Cos'è? Cos'è? Si riproduce vivo in me (Afterhours, ‘Germi’) Sarebbe facile liquidare il surreale dibattito sulla visione dei migranti come portatori di malattie con una pesante somministrazione di conoscenza. Basterebbe prescrivere la lettura di un saggio molto popolare ‘Armi, acciaio e malattie’, in cui Jarred Diamond dimostra in modo abbastanza inoppugnabile che il più grande disseminatore di epidemie è stato l’uomo bianco europeo. Oppure passare a una terapia più invasiva come ‘Storia notturna. Una decifrazione del Sabba’ di Carlo Ginzburg, che nel primo capitolo illustra, con la sua inimitabile capacità di cumulare e connettere fonti, l’antica abitudine del suddetto uomo bianco europeo di scaricare le proprie tensioni sociali su capri espiatori a portata di mano. In genere gli ebrei e i lebbrosi. Quindi le donne. Oggi cambiano i capri ma il bisogno di espiazione rimane, mosso dal peggiore dei virus: la paura. Ma se il sapere storico e antropologico è un farmaco a lento rilascio, la letteratura si rivela spesso più potente, perché combatte la paura sul suo stesso terreno: l’immaginazione, ovvero il discorso. E se basterebbe ricordare che Tex Willer è vedovo della Navajo Lilyth a causa di una vendetta a base di vaiolo di due fuorilegge visi pallidi; il consiglio è quello di leggere ‘Il Cromosoma Calcutta’ l’avvincente romanzo di Amitav Ghosh. Ghosh come molti scrittori dell’impero è stato contagiato dalla lingua inglese, ma non si fa problemi ad usarla mirabilmente per esaltare la sua cultura, meticcia e cosmopolita. ‘Il Cromosoma Calcutta’, pluripremiato come romanzo di fantascienza è in realtà poco inquadrabile in un genere preciso. E’ un romanzo storico ed un poliziesco; una storia di avventure e un esempio di letteratura contro coloniale. E’ uno di quei libri, ormai rarissimi, che leggi per sapere come va a finire. Un romanzo che dice molte cose sulla malaria ma soprattutto su quella strana malattia che può diventare la conoscenza razionale quando viene piegata agli interessi del più forte. Assumetelo in dosi massicce, non ci sono controindicazioni. In questi giorni la cronaca nera e l’ordine pubblico seppelliscono, sotto il loro grand guignol, la realtà materiale della nostre città in tumultuosa trasformazione. Sarebbe utile cercare le parole giuste per descrivere questa realtà nel dibattito politico, ma spesso è meglio rivolgersi alla letteratura. Lo sa bene Sandro, il protagonista di Ogni Maledetto Martedì – Giornate di un Consigliere Comunale, di cui riportiamo integralmente la recensione da lui scritta, durante la pausa di un Consiglio Comunale, del romanzo Heartland di Anthony Cartwright, di cui sta per uscire nelle librerie italiane l’ultima opera. E’ il 2002 e siamo in una città del distretto siderurgico di Black County dove le fabbriche che chiudono lasciano dietro di sé vite che si ripiegano, e il ricordo ancora vivo dell’11 settembre rende più semplice dare la colpa di tutto il male ai Pakistani. Che sono venuti ad abitare nel quartiere e mandano i figli nella stessa scuola dei nostri, ma non nella stessa squadra di calcio. Heartland descrive, intrecciandole, tre partite. La prima si gioca su un campo di questa periferia logora, ed è la sfida decisiva tra la squadra di football degli inglesi, dove milita il protagonista del romanzo Rob Catesby, e la squadra degli immigrati, per il primato in classifica. La seconda si gioca in Giappone, ai Campionati del Mondo 2002, tra Argentina ed Inghilterra. Ci sono tutti, proprio tutti, nel pub per assistere alla grande rivincita di Messico ’86, quando quel guitto sublime di Diego Armando Maradona eliminò i maestri decaduti del calcio con un vile colpo di mano. Ora la star è David Beckham, che ha tutto per essere una star del mondo globale, e abbastanza per essere un buon calciatore. A lui e alle sue punizioni si affidano i tifosi assiepati nel pub per redimere, in 90 minuti, la frustrazione di un popolo che sente il declino alle porte dei propri villaggi. I protagonisti vivono entrambe le partite, una da tifosi e l’altra da giocatori, e Cartwright riesce a farti capire quanto il confine tra le due dimensioni sia sottile, come il gesso di una fascia laterale. Heartland è anche la storia di un amore e di amicizie messe in discussione dall’emergere dell’identità, che è la più brutale delle trappole perché quando cominci ad averla, un’identità, questa alza uno steccato tra te e gli altri. Già, gli altri. Quelli con cui andavi a scuola e con cui te le davi di santa ragione al campetto. Solo con l’affiorare dell’identità, agli occhi di Rob, che nella vita fa l’insegnante, i suoi amici e la ragazza di cui è innamorato possono diventare loro, gli altri. Ma la terza sfida che si intreccia con le due partite non è questa. E’ la campagna elettorale per il Consiglio Comunale della città, che vede schierati lo zio di Rob, storico militante e Consigliere laburista, e il proprietario del pub entusiasta sostenitore del British National Party, nuovo partito di ispirazione nazionalista populista ed anti immigrati. Rob, suo zio, e il proprietario del locale, si ritrovano insieme per vedere la partita della nazionale, con le loro maglie bianche con i tre leoni, e il desiderio profondo di ricucire tutto quello che si sta strappando nel loro mondo. Mentre guardano Beckham trafiggere l’Argentina, le altre sfide si sono già consumate, e nessuno ne è uscito davvero vincente. Possono solo esultare, senza sapere che anche questa volta l’Inghilterra non vincerà il Campionato del Mondo. Heartland è un libro di una densità politica sconvolgente, che spiega la Brexit e la crisi morale e politica del nostro mondo, meglio di qualunque trattato filosofico, meglio di qualsiasi editoriale, meglio di ogni sociologo da salotto televisivo. Rob, un calciatore professionista mancato e suo zio, che riesce a vincere le elezioni per un pugno di voti andando di porta in porta nella sua piccola città, rappresentano quello che più si avvicina a ciò che un tempo avremmo chiamato coscienza di classe. Quando straparliamo delle periferie del mondo e delle solitudini che in esse gonfiano d’odio non dovremmo limitarci alle cronache nere dei fatti di sangue e delle rivolte, ma guardare dove e come vivono davvero le persone quando le telecamere sono lontane. Sapere a cosa giocano, per chi tifano. L’insegnante Rob osserva prima di ogni altra cosa lo sfacelo del proprio ruolo, facendoci capire che nello stesso momento in cui si fa perdere valore alla scuola lo si fa perdere anche alla politica. La sua parabola e quella di suo zio sono congruenti. Ma nello stesso tempo Rob ricostruisce, nel campo di calcio, la possibilità di un mondo e il pakistano Zubair non è più il fratello di Adnan, scomparso nel nulla e sospetto terrorista, ma un magnifico giocatore di calcio, difficile da battere. E un cittadino. Quello che ci dice Carthwright è alla fine molto semplice: che la buona politica e il buon calcio sono la stessa cosa; quando giochi vuoi vincere, battere il tuo avversario, ma quando la partita è finita vuoi solo andare a casa tutti insieme o al pub, a vedere la partita degli altri. Heartland è un libro anche pieno di enigmi e con molti finali ma soprattutto è un romanzo con un cuore che pulsa e che parla di ciò che rende umani gli uomini. In questi giorni ho notato che sui media ed i social network molti sono convinti di sapere la verità tutta la verità sull’ondata di terrore che da anni stringe l’Europa e il mondo. Ma sono verità di argilla. Sembrano edifici teorici solidi (che vanno dall’incompatibilità dell’Islam con la democrazia alla difesa di un’idea di Occidente dai contorni piuttosto variabili), ma in realtà patine sottili, gadget seriali da esporre nel mercato apparentemente conveniente e democratico delle opinioni, dove la confezione sgargiante nasconde il vuoto di un’omologazione che svanirebbe alla minima immissione nel circuito di una qualche capacità critica. Contrapporre a questi salti nel cerchio di fuoco una qualche mia verità significherebbe accettarne la ratio, quindi l’unico principio che vorrei difendere è l’opportunità, se non il dovere, di conoscere la storia se si vogliono comprendere le quistioni del presente. A questo proposito ci sono delle letture che credo siano molto utili per darci una chiave di interpretazione di ciò che sta accadendo ed una è opportuno proporla oggi, giorno in cui ricorre il 90esimo anniversario dell’uccisione di Ferdinando Sacco e Bartolomeo Vanzetti (e il 40esimo anniversario della loro riabilitazione da parte di Michael Dukakis, forse l’unico candidato alla Presidenza USA sconfitto in buona parte per la sua radicale contrarietà alla pena di morte). E’ Il mondo che non fu mai dello storico inglese James Butterworth, che racconta la storia del ribellismo e del terrorismo anarchico dalla Comune di Parigi alla Prima Guerra Mondiale. Un’opera molto ben documentata, capace di restituire lo spirito di un’epoca molto inquieta e soprattutto di ricostruire la logica e le dinamiche che ad un certo punto possono portare uomini e donne a votarsi al nichilismo terrorista. Butterworth spiega molto bene diverse cose: - che non tutti gli anarchici erano terroristi, anche se alle polizie veniva comodo pensare che fosse così. Ma nello stesso tempo gli anarchici non violenti dovevano fare i conti con le contraddizioni di un pensiero che predicava il sovvertimento dell’ordine costituito, lasciando ampi spazi di ambiguità e discrezione sui mezzi che giustificavano il fine. I moderati affrontavano quindi il paradosso dell’ostracismo: considerati pericolosi sobillatori dall’ordine costituito e imbelli, velleitari e rinnegati dai predicatori della propaganda col fatto (dove fatto stava per attentati), erano vittime di un esilio umano permanente di cui in parte erano responsabili. - Che l’anarchia era allora la veste ideologica più comoda da indossare per singoli individui sociopatici o alienati. Allora ci si radicalizzava leggendo Bakunin e non il Corano. Ed i radicalizzati privi di basi politiche inaugurarono gli attentati nei luoghi pubblici in alternativi ai ben più mirati, anche se altrettanto efferati, regicidi. - Che anche se non c’era internet circolavano numerose pubblicazioni che fornivano le istruzioni per realizzare la propria bomba casalinga. Veri e propri rotocalchi del tritolo e della dinamite. Alla fine ciò che è cambiato da allora ad oggi è solo la riproducibilità tecnica della del fanatismo fai da te. - Che la radicalizzazione di alcuni gruppi minoritari nell’ambito del movimento anarchico (oltre che l’anarchia stessa) scaturiva reale e concreta di abissali diseguaglianze sociali, che in quel periodo storico si facevano sempre più acute e diffuse in diversi Paesi. Non era quindi un caso che gli anarchici britannici fossero pochi e invece molti i radicali che venivano da paesi dove regnavano l’assolutismo e/o l’asservimento brutale delle masse come la Russia e l’Italia. - Che gli estremisti viaggiavano insieme alle migrazioni di massa, trovando nei paesi di arrivo terreno fertile per fare proseliti sulla base delle condizioni di duplice sfruttamento – di classe e di etnia - a cui venivano sottoposti i migranti. Noi oggi guardiamo ai profughi come un vettore del terrorismo, esattamente come gli USA dell’epoca vedevano negli Italiani e nei Russi i portatori insani dell’anarchismo bombarolo. Sacco e Vanzetti furono vittime di questo meccanismo ideologico che creava la paura per convertirla in consenso. Leggendo Il mondo che non fu mai sono stato colpito da una riflessione: molti della mia generazione sono, come me, cresciuti ascoltando con commozione La Locomotiva di Francesco Guccini. La canzone racconta la storia del macchinista anarchico Pietro Rigosi che nel 1893 provò a lanciarsi con una locomotiva contro un treno pieno di signori. Scambiamo la locomotiva con un camion; la ferrovia con la Rambla; il treno pieno di signori con le masse di turisti; l’anarchia con l’Islam e possiamo intravedere una logica che non giustifica ma spiega. E se la logica è la stessa è facile che anche il motore di quella logica sia il medesimo: un mondo dove lo sfruttamento dell’uomo sull’uomo può portare anche alla violenza indiscriminata, creando le condizioni per reclutare martiri. Come diceva Brecht disgraziata la terra che ha bisogno di eroi. Una constatazione che non assolve alcun terrorista e non offre alcuna attenuante ai loro crimini, ma che dovrebbe costringere a capire che per combattere un fenomeno prima bisognerebbe comprenderlo. |
Simone Farello feat Gyorgy LukacsOgni forma d'arte è definita dalla dissonanza metafisica della vita. Archivi
Gennaio 2018
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