Con la morte di Mario Perniola se ne va un grande umanista italiano. Ha speso così tanto tempo nel criticare la logica dei riflettori permanenti, che i riflettori si sono girati tutti dall’altra parte di fronte alla sua scomparsa, lasciando alle pagine culturali il compito di ricordare uno studioso che sarebbe errato definire scomodo. Scomodo è chi decide di occupare lo spazio mediatico con il risalto della propria eterodossia, ostentando il proprio essere controcorrente e pronunciando qualche verità. Perniola si limitava a studiare, elaborare un pensiero critico e scrivere. Probabilmente lui era comodissimo: era la realtà che lui lucidamente descriveva che doveva aggiustarsi le pieghe del vestito quando si accorgeva che Perniola lo aveva capito benissimo che era all’ultima moda ma della taglia sbagliata. La scomodità di un umanista è nella capacità del suo pensiero di agitare la nostra piatta e superficiale visione delle cose e Perniola è stato molto di più che il nostro Mc Luhan o il nostro Debord, a cui era peraltro legato da una forte amicizia come ha ricordato nel suo bell’articolo Giuliano Galletta su Il Secolo XIX. Mario Perniola muore agli albori di un anno che avrebbe detestato, dal momento che sarà in parte dedicato a celebrare l’anniversario del ’68 e ai suoi movimenti, che Perniola si dedicò a demistificare e a rivelare nella loro autentica essenza nel suo ‘Berlusconi o il ’68 realizzato’, pubblicato da Mimesis nel 2011. Un saggio che con lo stesso angolo visuale adottato da Hobsbawn ne ‘Il secolo breve’ identificava nel ’68 il momento di svolta a favore di un individualismo sfrenato e dell’istituzione di un culto del gesto creativo che non potevano che sfociare nel nichilismo e nella fine del riconoscimento di qualunque competenza. Per Perniola la battaglia contro l’autorità celava la contestazione del sapere informato; l’apparente iconoclastia era in realtà la fondamenta della deregulation. Una protervia che sarebbe arrivata a contestare anche la medicina: nella sfera di cristallo della ragione Perniola pronosticò anche i no vax. I fili li tirava comunque un capitalismo che aveva bisogno di riconfigurarsi e di liberarsi di tutti gli orpelli. A partire da quella noiosa ma ben salariata classe media che venne ripudiata per i suoi costumi da figli che nel loro volere tutto si ritrovarono, con le dovute eccezioni, a non avere niente se non un posto in coda per l’ultimo smartphone. Nel criticare il ’68 o i media nei suoi, da riscoprire in quest’epoca di news e fake news all’ammasso e all’arma bianca, ‘Contro la comunicazione’ e ‘Miracoli e traumi della comunicazione’ Perniola difendeva lo spirito critico e la conoscenza dura, solida, quella fondata sui libri e sull’approfondimento. Difendeva il nocciolo concreto della realtà e spesso si ritrovava a citare nei suoi testi Roland Barthes, un altro grande demistificatore che tentò di indagare i meandri di quell’irriducibile fonte di autenticità che è il nostri corpo: Barthes in ‘Barthes di Roland Barthes’ e Perniola in ‘Il sex appeal dell’inorganico’. L’andatura di Perniola era quella del pamphlet, del jeb sferrato contro avversari così sicuri di sé da avere sempre la guardia abbassata. Non solo scriveva cose intelligenti, ma le scriveva bene, con una competenza stilistica che oltre ad evitargli una contraddizione gli meritava l’attenzione di chi sa che le parole sono importanti. La sua scomparsa è una tragedia, perché ci priva del suo pensiero, ma giunta ora non solo ha risparmiato a lui il caravan serraglio celebrativo del 1968, ma anche il ritorno di Berlusconi nelle vesti addirittura di baluardo contro la superficialità cubica delle sette cibernetiche fondate sulle piattaforme e il 6 politico. Ci mancherà, Perniola, e abbiamo, noi che crediamo ancora nell’umanesimo, il dovere di provare ad essere all’altezza del suo insegnamento.
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Gennaio 2018
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