Sapete quale è la cosa più folle riguardo a ciò che nelle aziende dell’Information & Communication Technology chiamano killer application? E’ che sono considerate una cosa positiva, una benedizione, la chiave di volta di un luminoso successo. In concreto sono servizi che ne uccidono altri, rendendoli così obsoleti da ridurli letteralmente in cenere. Sono dei prodotti assetati di sangue tipo le email, che annientano le lettere spedite per posta, o le schede di memoria digitale che fanno strage dei rullini fotografici. Le killer application uccidono le vecchie cose in nome della santa divinità del nuovo, in realtà un mostro capriccioso e vorace, all’altare del quale portiamo ogni giorno doni e sacrifici. Qualcuno, ovviamente, lo chiama progresso, facendo finta di non accorgersi degli effetti collaterali. I lavoratori della Kodak, ad esempio. Ed anche chi se ne accorge, o diventa un luddista o spera che le killer application possano dare più opportunità di quelle spedite nel magazzino del vintage. Ma è davvero difficile accettare questo processo quando ad essere sterminate sono le nostre vecchie cose, come le piccole librerie a cui abbiamo dedicato una parte di questo blog; quando a gettare la spugna dopo una strenua resistenza sono prodotti culturali che hanno segnato un’epoca. L’agonia della rivista Rolling Stone è così dilaniante che l’unica consolazione è che Hunter S. Thompson si sia sparato prima di vederne la fine; dopo il patetico tentativo in extremis da parte del fondatore ed editore della rivista Jann Wenner di salvarsi dal fallimento affidandosi a improbabili fondi di investimento asiatici, come una squadra di calcio qualsiasi. Anche se per noi lettori, il vero cruccio è quello che non ci sia proprio il vecchio Doc a raccontarci questo delirio e paura a Singapore, a scrivere l’epitaffio di quella che è stata una delle più importanti riviste del… secolo scorso. Rolling Stone è definita la rivista della controcultura hippie e in quel milieu è certamente nata. Ma il suo successo è stato decretato dalla middle class che dominò lo scenario sociale occidentale sino all’era Reagan. Esattamente come Playboy proponeva nelle sue pagine i racconti di premi Nobel per la letteratura e le interviste a Martin Luther King, Rolling Stone affiancava alla lista dei 100 chitarristi migliori di tutti i tempi i reportage politici del suddetto geniale pazzoide Hunter S. Thompson: letteratura allo stato brado. Quello che per Hugh Hefner era la narrativa, per Jeff Wenner era la politica. Entrambi vendevano un prodotto di massa, ma volevano essere qualcosa di più, volevano essere impegnati. E ciò che li rendeva impegnati era la scrittura. Sia Playboy che Rolling Stone non volevano essere solo sfogliati ma essere letti. Non volevano abbassare la cultura alta ma usare la cultura pop per rendere omaggio alla cultura alta. Per loro essere al passo con i Jones significava poter leggere Kurt Vonnegut o sostenere Mc Govern contro Nixon. Avevano così rispetto per i loro lettori da sapere che agli impiegati non sarebbero bastate le foto di nudo e agli studenti le interviste alle rock star. Per questo rappresentano un epoca quanto Bob Kennedy e il keynesismo. Cercavano e creavano linguaggi, che è poi quello che fa la letteratura. Oggi i media, a partire dai social network, come è ben spiegato da Jonathan Franzen ne Il Progetto Kraus (e Karl Kraus è stato il primo gonzo giornalista), distruggono il linguaggio appiattendolo e abbassandolo, dimostrando prima di tutto un disprezzo brutale per i loro fruitori. Che poi siamo noi. Rolling Stone muore ucciso dalle killer application ma ha una forza che niente potrà cancellare: possiamo ancora prenderlo in mano, consultarlo, leggerlo. Come un libro.
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Gennaio 2018
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