Lo sport, e nel nostro specifico caso nazionale, il calcio, è un fatto sociale. Non perché sia un riflesso della società, ma perché ne è una essenziale componente materiale. Osservare lo sport come se fosse uno specchio di quello che noi siamo come soggetto collettivo è un abbaglio retorico, dal momento che presuppone che l’abilità e il successo in un determinato gioco rappresentino la capacità di un’economia o la qualità di una classe politica. Un rapporto di causa ed effetto che non ha alcun fondamento se non, appunto, quello della facile semplificazione. In questo modo lo sport diventa uno story telling e cessa di essere quello che è davvero: una storia che si costruisce giocando. Lo sport è un fatto che accade, si dipana e contribuisce, con tutti gli altri, a comporre l’identità storica, sempre incerta e sempre in divenire, di un popolo. Diversi libri, soprattutto negli ultimi anni, hanno saputo rappresentare questa componente dello sport e a proposito del calcio possiamo citare ‘Ajax la squadra del ghetto’ di Simon Kuper (che parla anche di Hanna Frank ma soprattutto dice un bel po’ di quelle cose che non si sanno mai abbastanza) e ‘Vincere o morire’ di Enrico Brizzi, che ci racconta come l’epoca più gloriosa del nostro calcio – quella che va dal 1934 al 1940 – coincide con il climax del ventennio più nero e tragico dell’Italia. Il fatto è che nonostante quello che amano dire molti intellettuali lo sport è quello che piace agli uomini, per citare Cyrl L. R. James, uno studioso di importanza capitale per le periferie del mondo e il post colonialismo, che sui campi da cricket apprese altrettante verità che nei romanzieri inglesi che studiava ed amava. Lo sport non racconta nulla, di per sé, ma esige il racconto in quanto vicenda umana. Per questo inauguriamo oggi, in questo giorno di sconfitta, la nuova rubrica del blog Book Sport.
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Simone Farello feat Gyorgy LukacsOgni forma d'arte è definita dalla dissonanza metafisica della vita. Archivi
Gennaio 2018
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