Horace Mc Coy è un autore che andrebbe completamente riscoperto. Di lui potrebbero ricordarsi, vagamente, gli appassionati di cinema che hanno visto Non si uccidono così anche i cavalli?, un film di Sidney Pollack che fece meritare l’Oscar come miglior attore non protagonista a Gig Young. Ma quanti sanno che la pellicola si basava sul romanzo omonimo di Horace Mc Coy? In Italia solo l’hard boiled molto anticonformista Un bacio e addio ha meritato l’attenzione di Einaudi, mentre le altre opere sono uscite per piccole case editrici. Avrei dovuto restare a casa per la genovese Il Melangolo, Non si uccidono così anche i cavalli? Per Terre di Mezzo, a cui dobbiamo anche la riscoperta de Un Sudario non ha tasche. Un Sudario non ha tasche sembra un po’ un hard boiled, ma al posto di un detective nelle vesti dell’antieroe c’è un giornalista che, stufo di vedere le sue inchieste più scomode insabbiate dalla sua testata collusa con i potenti della città, decide di farsi una rivista tutta sua per dire la verità, nient’altro che la verità. Cronaca di un martirio annunciato sin dalle prime pagine, il romanzo è profondamente politico. Se la maratona di ballo di Non si uccidono così anche i cavalli? era l’esasperata rappresentazione di un mondo dove per emergere contano solo la capacità di sopravvivere calpestando la caduta di chi compete con te per un posto al sole; Un Sudario non ha tasche è un viaggio nell’inferno in terra del potere. Le inchieste del protagonista Dolan sono il cammino in un cimitero dove tutte le tombe vengono scoperchiate e in ognuna si nasconde un peccato, una vergogna, soprattutto in quelle delle famiglie più altolocate, delle personalità più rispettabili. In un’atmosfera western che ricorda quelle del coevo Hammet, Mc Coy racconta la storia del suo giornalista come se fosse una parabola, dove l’unica cosa che conta è una parola che metta un punto, un articolo che sveli e metta a nudo gli ingranaggi del potere. In questo Un Sudario non ha tasche non è tanto un libro sul giornalismo ma, appunto, su come funziona una città in quanto aggregato molecolare di una società costruita su rapporti di corruzione. Non su fenomeni di corruzione ma su interdipendenze basate sullo status e la ricchezza, sull’apparenza della rispettabilità e la concretezza dell’aberrazione. Così disperato da non essere mai moralista ma fondamentalmente realista, Mc Coy assomiglia molto a Zola ed è forse per la sua eccessiva nitidezza e crudezza, che disturbano, che ha avuto meno fortuna di autori che hanno affrontato gli stesso temi e non ha avuto nemmeno il riscatto postumo toccato all’unico che un po’ gli può essere paragonato, Nathanael West. Ne Un Sudario non ha tasche, Mc Coy dà per la prima volta ai suoi personaggi una coscienza politica. Il dialogo in cui l’amico Bishop spiega a Dolan che quello che gli serve è "… disciplina. E organizzazione. Altrimenti non raggiungi neanche la prima base. Altrimenti sei solo un lavoratore zelante. Sai cos'è il comunismo, vero?", dà la chiave di lettura di tutta la storia raccontata. Per scoperchiare tombe va bene anche un antieroe, per cambiare le cose ci vuole molto di più che un esempio da seguire. Ma a volte un esempio da seguire è un buon punto di partenza, come ci ricorsa Sandro in Ogni Maledetto Martedì, parlando di Un Sudario non ha tasche: “Sono così abituato a giornalisti che trafficano con il potere, interessati soltanto ad anticipare le notizie utilizzando i politici come fonti riservate, pronti a parlar male di te se gli fai prendere un buco, o se fai qualcosa di così sbagliato da diventare una notizia più succulenta di quelle che gli hai fatto cucinare tu; da essere affascinato dalla storia di un cronista disposto a mettere la verità al di sopra di ogni cosa, anche della sua stessa vita. Mi ha colpito molto la piccola città, in cui tutti sanno i segreti di ognuno, ma fanno qualsiasi cosa affinché non vengano mai svelati quasi per la paura che, esposti alla luce del sole, possano sciogliersi come neve e, con loro, possano sciogliersi anche le persone. Questa cosa mi ha fatto pensare che una città possa essere tanto più importante quanto più sono numerosi e scabrosi i suoi segreti, e che il potere di chiunque faccia politica non stia in quello che è capace di fare o nei problemi che è in grado di risolvere; ma nella quantità di segreti che riesce a conoscere e che può scambiare con altri segreti. Quindi con altro potere. Del resto si dice, no?, “sapere e potere”. Ma si sono dimenticati il verbo nascondere”.
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“Karl Kraus (1874 – 1936) era uno scrittore satirico austriaco, figura importante nel ricco panorama culturale della Vienna fin de siècle. Dal 1899 fino alla morte, Kraus diresse e pubblicò l’autorevole rivista <<Die Fackel>> (<<La Fiaccola>>); dal 1911 in poi ne divenne l’unico autore. Anche se Kraus avrebbe probabilmente odiato i blog, <<Die Fackel>> era l’equivalente di un blog, la cui lettura e commento erano giudicati necessari praticamente da tutti i nomi che contavano nel mondo germanofono, da Feeud a Kafk a Walter Benjamin”. Così introduce Kraus a noi contemporanei Jonathan Franzen, l’autore de Le Correzioni, Liberty e Purity, nel suo saggio di meta letteratura il Progetto Kraus. L’espediente di Franzen è degno di un erudito di epoca alessandrina: il suo libro riporta integralmente due saggi di Karl Kraus – Heine e le conseguenze e Nestroy e la posterità – commentati in nota dallo stesso Franzen. Il risultato finale concede al lettore tre possibilità: leggere esclusivamente i testi di Kraus; leggere esclusivamente le note di Franzen (che compongono effettivamente un corpus unitario che potrebbero anche prescindere da Kraus); leggere entrambi. Il mio suggerimento è, se ne avete il tempo, di fare tutte e tre le cose partendo dall’ultima, che è la modalità di lettura più impegnativa. Del resto credo che fosse proprio questo l’obiettivo di Franzen: costringerci ad una lettura che sfocia inevitabilmente nello studio; un piacere che diventa anche un’attività, un lavorio. Franzen ricorre a Kraus, grande fustigatore della superficialità intellettuale e della banalità del male di ogni scrittura e lettura, per dire la sua sulla superficialità e la banalità di scrittori e lettori dei nostri tempi: così come gli antichi durante la querelle con i moderni Franzen si mette sulle spalle di un gigante del passato e da lì comincia a menare fendenti. E se uno dei principali bersagli di Kraus era il giornalismo scandalistico della sua epoca, in cui gli effettacci e gli ammiccamenti prevalevano su qualsiasi altra cosa; l’oggetto della critica di Franzen è internet. In questo modo Il Progetto Kraus riesuma un genere purtroppo dimenticato: il pamphlet, che è la prosecuzione di un’editoriale (di un’opinione) nella letteratura. Un approfondimento critico della realtà in presa diretta: un esercizio per cui sono necessari un grande stile ed un grande controllo del materiale di cui ci si serve. Il pamphlet è l’antitesi di una striscia testuale di twitter o di un post su Facebook, perché costringe un moto dell’animo – la polemica – alla prova di un’argomentazione. Il primo rifiuto che oppone il pamphlet è quello ad una sintesi che è solo semplificazione. Il Pamphlet non avrà mai una didascalia che avverte che può essere letto in tre minuti: ci vuole il tempo che ci vuole, e potrebbe essere parecchio; potreste essere costretti a leggere e rileggere le stesse righe più volte prima di capirle. Ma ne vale la pena. Pur nella sua complessità Il Progetto Kraus è una lettura piacevole, anche divertente, perché la polemica e la satira devono esserlo, altrimenti sono solo noioso moralismo. Per fare della grande satira bisogna essere serissimi e Kraus per diventare ed orgogliosamente essere il Grande Odiatore “passava molto tempo a leggere roba che odiava, in modo da poterla odiare con cognizione di causa”. Cosa che ha fatto anche Franzen: per demolire internet ha dovuto e deve, come tutti noi, frequentarlo quotidianamente, tentando di salvare il salvabile non del media in sé ma dell’orda di contenuti svilenti ed avvilenti che chiunque può riversarci dentro senza alcun filtro. Se siete dei tecnodiffidenti o dei web scettici questo è il vostro libro. C’è da dire che Franzen si è assunto anche un rischio: rivolgendosi ad un pubblico se non esigente almeno molto rompi cabbasisi, credo sapesse benissimo che molti si sarebbero accorti che in quanto a stile polemico Kraus, una volta superato lo scoglio del linguaggio, è imbattibile. Nessun autore contemporaneo sarebbe del resto probabilmente in grado di pubblicare una rivista – che è molto più complessa di un blog, a partire dal lavoro materiale che comporta una produzione tipografica/cartacea rispetto al postare – interamente da solo, come fece Kraus da un certo punto in poi dopo aver allontanato tutti i suoi collaboratori. Nello stesso tempo Franzen ha evitato uno di quelli che Kraus considerava tra i peggiori difetti di un artista: il talento. Ed è questa polemica quella secondo me più interessanti nei due saggi originali, perché ci permette di smontare uno dei più grandi miti del nostro tempo, ovvero il talento. Che è la versione della nobiltà di sangue nella società dell’informazione: entrambe fondano l’autorevolezza su una cosa che hai o non hai, non su quello che puoi imparare con lo studio ed il lavoro. Kraus, parlando di Heine, un poeta molto celebre all’epoca (e rimasto molto più famoso di Kraus anche ai tempi nostri), sosteneva che l’artista non è colui che essendo ispirato piega la parola al suo volere ma colui per il quale “il suo lavoro è tutto uno scrupolo: si dà da fare, ma esita. Dopo essersi dato da fare” e “Il pericolo della parola è il piacere del pensiero”. Coerentemente Kraus esigeva dai lettori la stessa fatica che si imponeva come artista: “Il grande trucco della lingua truffaldina […] continua ad agire attraverso la generazione dei giornali, e a tutti coloro per i quali leggere è un passatempo, offre il piacevolissimo pretesto di evitare la letteratura”. Chi ha deciso di non evitare la letteratura lo legga, Il Progetto Kraus. Un altro grande classico delle letture estive sono i fumetti. Una forma espressiva in Italia piuttosto reietta, come tutte le manifestazioni artistiche autenticamente popolari, maltrattate e ostracizzate dall’idealismo crociano e dai suoi persistenti derivati accademici. Così se al piano nobile di una librerie francese novità delle BD, le bandes dessinées, il nome che i francesi danno ai fumetti, sono esposte accanto ai best sellers e le novità di narrativa e saggistica; in Italia i fumetti si comprano quasi esclusivamente in edicola e nelle librerie, di solito, sono relegati in qualche angolo oscuro, ben distanti dai libri seri. Periodicamente, per iniziativa di un intellettuale illustre, qualche fumetto riesce a farsi spalancare la torre d’avorio della cultura alta, come è accaduto ai Peanuts grazie all’autorevole raccomandazione di Umberto Eco. Ma anche la storia della più importante rivista italiana dedicata ai comics, ‘Linus’, è quella di un ghetto, di una segregazione. Il fumetto, per essere accettato in società, doveva entrare a far parte del salotto buono della sinistra intellettuale, acquisire una dimensione politica, elevarsi di livello, allontanarsi dal popolo e piacere a quei pochi che sono in grado di “capire davvero”. Gli autori, per affermarsi, dovevano riuscire a farsi riconoscere come artisti: Crepax e Pratt sono tra coloro che ci sono riusciti diversamente da Tex Willer, che piaceva come personaggio – perché stava con gli indiani e non con i cowboy – ma i suoi albi formato Bonelli passavano direttamente dall’edicolante di fiducia al comodino delle case popolari, senza che nessuno considerasse i suoi autori quali artisti di un certo pregio. E’ andata avanti così per decenni: il popolo leggeva i fumetti; gli intellettuali studiavano i fumetti e decidevano quelli che avevano quel qualcosa in più, lasciando il popolo fuori dalla porta. Che tristezza. Poi ci ha pensato la moda. Quando, per qualche arcana coincidenza, un fumetto diventa “in”, il mercato editoriale italiano si concentra totalmente sul fenomeno del momento, sfruttandolo sino a quando dura l’onda. Accade oggi con il successo di Zerocalcare ed è accaduto trent’anni fa con Dylan Dog. Parlare male di Dylan Dog è ai giorni nostri considerato quasi blasfemo perché nel frattempo è riuscito a farsi accettare dalla cultura sopraffina; ma per almeno i primi quattro anni ha circolato all’interno di una setta di fanatici, che tutto avrebbero voluto tranne che il loro personaggio preferito diventasse una sorta di pop star, sino ad essere il protagonista di un film con Rupert Everett e Anna Falchi (sic!). La cosa inorridì i lettori storici più di quanto li inorridisse leggere di squartamenti e zombie. Ma quando Dylan Dog, come l’horror e l’heavy metal, passò di moda, l’onda delle alte tirature si ritirò, lasciando la serie nelle secche e nelle discussioni ormai piene di rancore fra i lettori rimasti. Zerocalcare è avvertito. Nel 2016 Dylan Dog ha festeggiato il 30° compleanno della testata, un’occasione che è stata utilizzata per sfruttare sul mercato l’effetto nostalgia. Ma non è una nostalgia canaglia. La pubblicazione, in edizione rilegata e a colori, dei numeri 16 e 17 della serie regolare riesuma tutta la bellezza del personaggio. Innanzitutto ‘Il Castello della Paura’ e ‘La Dama in Nero’ sono disegnati dalla coppia Montanari & Grassani, la cui immagine di Dylan Dog è, insieme a quella del primo copertinista Claudio Villa, l’ideale archetipico dell’eroe: quando si chiede ai vecchi lettori di dire quale è il vero volto di Dylan, quasi tutti vi risponderanno quello di Montanari & Grassani. Nella trasposizione a colori si perdono, purtroppo, molti dei giochi di ombra così efficaci nel bianco e nero originale, ma rimane intatta l’atmosfera gotica della storia, giocata tra l’ironia e la tensione; tra l’enigma della camera chiusa e l’evocazione del soprannaturale. In molti attribuiscono il successo di Dylan Dog alla capacità del suo tormentato ideatore, Tiziano Sclavi, di scavare negli abissi esistenziali della società moderna per farne emergere i demoni sotto forma di incubi, spettri e creature fantastiche. Per Sclavi il mondo è solo uno dei tanti inferni possibili e quelli che chiamiamo “mostri” sono una proiezione delle nostre paure, della nostra incompatibilità con la vita. E’ indubbio che Dylan Dog sia anche questo. Ma ‘La Dama in Nero’ è la dimostrazione che su queste fondamenta filosofiche, Sclavi è riuscito ad erigere delle storie così ben congegnate da diventare, è il caso di dirlo a chiare lettere, dei classici. Punto di riferimento mai taciuto da Sclavi è Edgar Allan Poe, uno scrittore che sulle proprie nevrosi modellò storie di chirurgico terrore, rivelando per primo il lato oscuro di un mondo che credeva di essere entrato in un’era di progresso inarrestabile. Poe contestava la sovranità della scienza, dando corpo e voce all’inspiegabile; Sclavi contesta la sovranità della burocrazia e dei vincoli sociali dando voce e corpo all’inconsolabile che c’è in ognuno di noi. Sclavi ha fatto di Dylan Dog un classico perché non ha mai tradito la cultura popolare di genere a cui appartiene, senza mai avere l’ambizione di scrivere un fumetto colto o, come piace dire ai critici, un “fumetto d’autore” (una delle espressioni più razziste e settarie che esistano). Il centro di tutto sono sempre delle belle storie, dall’intreccio tradizionale, dove il lettore sa sempre orientarsi, trovando l’appagamento della ripetizione che è l’essenza della letteratura seriale. Sclavi è riuscito a dare all’Italia una grande saga nazional popolare, ed è questo il merito che gli andrebbe riconosciuto rileggendo un lavoro come ‘La Dama in Nero’, che riesce ad essere nuovo senza contemplare niente che non sia già stato scritto. Quello che rende Dylan Dog un eroe degli anni ’90 è la sua ironia. Edgar Allan Poe scolpiva i suoi racconti nella pietra dura della cupezza, Tiziano Sclavi nelle screziate schegge del disincanto. Lo stesso sentimento che portò l’autore ad abbandonare la sua creatura, riuscendo nell’impresa in cui fallì Sir Arthur Conan Doyle. Questi fu costretto dai suoi lettori a resuscitare Sherlock Holmes, un personaggio che ormai considerava una prigione; Tiziano Sclavi ha lasciato vivere Dylan Dog eclissando sé stesso. Molti attribuiscono a questa frattura il declino qualitativo di Dylan Dog. Un declino discutibile, perché in buona parte determinato da quello che potremmo definire il “paradosso del pregiudizio del successo”: quando la moda si rivolge altrove i più delusi sono gli entusiasti della prima ora, quelli che non volevano che il loro personaggio fosse il personaggio di tanti. Sono quelli del “c’eravamo tanto amati”, del “niente sarà più come prima”. Ma la verità è probabilmente più complessa. Dylan Dog è stato per il fumetto e la letteratura quello che Kurt Cobain è stato per la musica rock: l’ultimo sussulto, prima della fine di molte cose e l’inizio di un nuovo modo di fruire la cultura. Ma come tutti i classici Dylan Dog resiste e continuerà ad essere disegnato, in un eterno tributo ad una grande forma d’arte. Il ritiro dalla scrittura di Sclavi è stato come il suicidio di Cobain: le loro opere rimangono, immortali. Tiziano Sclavi rimane anche uno dei pochissimi scrittori popolari della narrativa italiana. Narrativa? Gli amanti del fumetto definiscono la loro passione “le nuvole parlanti”: è un’immagine di straziante bellezza, che dipana tutta la meraviglia di testi che si uniscono al disegno, una forma d’arte che non ha bisogno di nessuno sdoganamento, basta lasciarla ai lettori e ai loro sogni. Quando leggerete ‘La Dama in Nero’ non importa se credete o no ai fantasmi, i fantasmi siete voi. Dashiell Hammett, indiscusso maestro del genere hard boiled (o anche scuola dei duri, quando i detective escono dai salotti borghesi e devono fare i conti con la vita reale), è noto al grande pubblico per alcuni titoli che sono stati adattati per il grande schermo e la faccia da duro dal cuore tenero di Humphrey Bogart, su tutti ‘Il Falcone Maltese’. Questo ha fatto dimenticare l’Hammett più irregolare che è, ovviamente, quello migliore. Diversi studiosi hanno sostenuto che il poliziesco, in quanto genere letterario tipicamente borghese, mostri il delitto, la ricerca e la scoperta del colpevole ma ometta completamente il conflitto di classe che genera il crimine. E’ un’affermazione spesso vera, ma Hammett sapeva di cosa voleva parlare e di cosa stava parlando. Oltre ad essere un convinto marxista (oggi sembra strano, ma negli anni ’30 del XX Secolo in USA c’erano moltissimi comunisti), aveva lavorato per la famosa e famigerata Agenzia Pinkerton, che forniva servizi si sicurezza privata a governi, liberi cittadini e, soprattutto, ai padroni. Nel periodo in cui in Italia il lavoro sporchissimo contro gli scioperi e i sindacati lo facevano le camicie nere oltreoceano ci pensavano delle autorevoli aziende ben posizionate nel mercato della repressione del dissenso, in accesa ma rispettosa concorrenza con la malavita organizzata. Nelle file dell’Agenzia Hammet ci era finito per il motivo più reale possibile: il bisogno di un lavoro e di un salario. Da questa esperienza il romanziere non trarrà solo ispirazione, ma l’esigenza di rappresentare l’alienazione insita nello sfruttamento del lavoro e la violenza del sistema capitalista. Nasce così Continental Op, anonimo protagonista del primo romanzo di Hammet, ‘Red harvest’. Continental Op non c’entra nulla con Bogart, è una semplice funzione dell’ingranaggio economico e sociale. Indaga e agisce in un contesto degradato dove la narrazione è interamente volta a mettere a nudo quei rapporti di classe che generano la violenza e il crimine. Figura assolutamente brechtiana Continental Op si muove in uno scenario che sembra davvero un’Opera da Tre Soldi ambientata in California. Paradossalmente questi pregi sono quelli che hanno portato all’oblio il duro, durissimo ‘Red Harvest’, ‘Piombo e sangue’ nelle introvabili edizioni italiane (l'ultima di Guanda). Eppure il romanzo è intenso, avvincente, incalzante: un autentico gioiello della suspense, come ben capì Sergio Leone che lo riadattò in ‘Un Pugno di Dollari’. Sergio Leone per la sceneggiatura di quel film fu accusato di plagio niente meno da Akira Kurosawa, che sosteneva che l’autore italiano avesse bellamente copiato ‘La sfida del samurai’. La difesa del maestro dello Spaghetti Western fu che… avevano copiato tutti e due. ‘Red Harvest’ è un capolavoro della letteratura popolare e non ha perso nessuna delle sue qualità narrative. Il fatto che sia dimenticato è un vero crimine, per cui nessun colpevole verrà mai punito. Ma i libri possono sempre evadere dalle segrete della memoria: grazie ai lettori. Mark Twain non è certo un autore dimenticato ma di certo sono drammaticamente trascurate od addirittura ignote se non agli accademici le sue opere più significative. Le ragioni di questo sciagurato oblio sono diverse. La prima è probabilmente dovuta ad un meccanismo editoriale: i suoi libri più celebri - “Le avventure di Tom Sawyer” e “Le avventure di Huckleberry Finn” - sono da tempo destinate alla narrativa per ragazzi. Non esiste sussidiario della scuola primaria che non ne contenga un episodio e spesso vengono adottate come libro di testo nelle scuole medie. Il timore è che questo accada per il semplice motivo che sono storie che parlano di adolescenti. Ma trattandosi di adolescenti del XIX secolo, Sawyer e Finn, fanno delle cose incomprensibili per i loro coetanei di oggi, che lungi dal sospettarne la modernità preferiranno, non senza ragione, la play station. Propinare scene di vita nel Mississippi del XIX Secolo non sembra essere il modo migliore per convertire i ragazzi dalla Nintendo ai romanzi. Meglio Harry Potter. Mark Twain, esattamente come Dickens, raccontava storie di adolescenti perché viveva in un mondo pieno di giovani e dove, peraltro, invecchiare era spesso un’impresa. I ragazzi erano i protagonisti di società giovani, che crescevano impetuosamente e con loro crescevano i lettori. Ma quando ti ritrovi, postumo e contumace, ad essere un autore confinato nella narrativa scolastica perdi di autorevolezza: quello che è successo a Twain lo accomuna a Swift (ha scritto “I Viaggi di Gulliver”, un’opera satirica di cui non si fanno mai leggere i viaggi dal terzo al quinto, che sono i migliori), Melville (quello di “Moby Dick” che sta alla narrativa per ragazzi quanto la “Divina Commedia” al Karaoke), Stevenson (“L’Isola del Tesoro” e “Lo strano caso del dottor Jekyll e del signor Hyde”, che non è proprio una favola della buona notte), London (“Zanna Bianca”, così tutti evitano di leggersi “Il Tallone di Ferro” che svela il London socialista), Collodi (“Pinocchio” è una storia di paura: sappiatelo). E’ come se gli editori e gli educatori considerassero la letteratura dei secoli passati quasi una fase giovanile della letteratura di oggi e la gettassero in pasto ai giovanissimi con la convinzione che sia alla loro stessa altezza. Così gli adolescenti si attaccano a youtube e i lettori sono privati di opere di grande valore che non vengono più tradotte o pubblicate. Va quindi un plauso alla casa editrice Mattioli 1885 che ha avviato una vera e propria impresa: la pubblicazione dell’opera omnia di Mark Twain, riportando alla luce autentici gioielli. La verità è che Mark Twain è per la letteratura della prima metà del ‘900, soprattutto per quella americana, l’equivalente di quello che sono stati i Beatles per la musica rock: praticamente tutto quello che è venuto dopo, lui lo aveva già fatto. Maestro riconosciuto del realismo e della satira, Twain ha scorrazzato e imperversato per ogni genere letterario, con risultati che meritano di essere riportati alla luce e donati ai lettori di oggi, storditi da troppa scrittura superficiale e scontata. Ne è un esempio il racconto breve, anzi brevissimo, che dà il titolo alla raccolta “Cannibalismo in treno”, che potrebbe benissimo essere scritto da Edgar Allan Poe per quanto è inquietante, da HP Lovecraft per quanto è terrificante, solo ed esclusivamente da Twain per quanto è dissacrante, divertente e, mi scuso per l’eccesso di aggettivi, geniale. “Cannibalismo in treno” è il racconto di un convoglio diretto a Chicago bloccato da una tormenta di neve. I passeggeri, isolati per giorni dal resto del mondo, saranno costretti per sfamarsi a sacrificare alcuni di loro. Ma nella civile America di fine ‘800 la scelta di chi sacrificare in nome della sopravvivenza degli altri sarà affidata a procedure di democrazia assembleare degne della Camera dei Rappresentanti. Non a caso il sopravvissuto che racconta a Twain – in occasione di un viaggio in treno - l’agghiacciante episodio altri non è che un Deputato di Washington. Travestito da racconto dell’orrore “Cannibalismo in treno” è un racconto politico che andrebbe somministrato ai rappresentanti delle istituzioni nell’età adulta, risparmiandogli Tom Sawyer. Dopo aver scritto una tesi di laurea sul romanzo poliziesco, qualcuno pensava che avrei smesso di leggere gialli; che ne avrei avuto abbastanza. Ovviamente si sbagliava. Del resto, se le storie di detection continuano ad essere uno dei generi letterari più resistenti all’usura del tempo e delle mode, non vedevo e non vedo ragione per privarmi di quella che continua ad essere la mia lettura preferita. Certo: scegliere adeguatamente nella straripante produzione di thriller è un’impresa nell’impresa. Il genere è praticato ad ogni latitudine e in qualunque lingua: evidentemente l’esposizione dettagliata di un crimine attira sciami di lettori ansiosi di indagare, rivelare e punire. Anche molti non readers si concedono qualche volta un noir, perché sono davvero pochissimi quelli che riescono a resistere alla tentazione di competere con il detective di turno nella sfida a chi, per primo, indovina il colpevole. Questo eccesso di offerta rende molto difficile districarsi tra l’ottimo e il pessimo; tra il buono e il meno buono; tra il romanzo indovinato e quello che non sta in piedi, né per la trama, né per lo spessore dei personaggi. La scelta per questa recensione d’esordio è caduta quindi su un romanzo molto particolare di uno scrittore che è stato molto celebre e che oggi sta scivolando nell’oblio, insieme al genere di cui è stato un indiscusso maestro. Quando ho scoperto che si era cimentato anche con il poliziesco non ho avuto la minima esitazione a leggere quella che è a tutti gli effetti una storia unica, scritta in modo unico. Il fatto è che Stanislaw Lem è stato uno dei più grandi scrittori del ‘900, anche se è conosciuto soprattutto per le sue opere di fantascienza, un genere sull’orlo di una crisi di nervi. Quando si è cimentato, senza che molti se ne accorgessero, in un poliziesco, il risultato è stato un romanzo dalle tinte così inquietanti e dall’intrigo così ardito che metterà a dura prova anche l’appassionato più incallito, quello che quando guardate un film insieme vi dice chi è l’assassino al massimo alla seconda scena. Con “L’Indagine” – questo il titolo originale del romanzo – non ci riuscirebbe. La natura stessa del caso su cui è chiamato ad indagare il Tenente Gregory di Scotland Yard è il primo indizio che ci troviamo di fronte a qualcosa di completamente diverso. Il problema infatti è che dagli obitori e dalle camere mortuarie di Londra cominciano a sparire i cadaveri. Le vittime del crimine sono dei morti. Chi li trafuga? E perché? Queste le domande a cui è chiamato a rispondere il nostro investigatore. Lem, un maestro nel dare vita ad altri pianeti ed altri mondi, riscrive da capo le regole del poliziesco pur rimanendo fedele al suo principio fondamentale. Cosa è infatti un giallo se non il tentativo di ridare un significato ed una spiegazione ad un evento caotico? Per il senso comune il fatto più caotico che si possa immaginare è quello di una persona che toglie la vita ad un’altra. Il fascino dell’assassinio sta tutto nel suo essere la violazione più estrema dell’ordine costituito. L’incanto che proviamo di fronte alle figure dei risolutori – da Sherlock Holmes a Hercule Poirot; da Nero Wolfe a Salvo Montalbano – è dato dalla loro capacità di rimettere in ordine il mondo, ancor prima di soddisfare il nostro bisogno di giustizia. La letteratura gialla è intimamente filosofica, perché chiama in gioco la capacità della nostra ragione di mantenere la comprensione ed il controllo su quello che succede. Lem va oltre, ponendo alla base della sfida dell’intelligenza del Tenente Gregory, non il delitto contro la vita ma un delitto contro la morte: il massimo dell’assurdità, e quindi il massimo del pericolo per una società che era alla disperata ricerca di certezze, mentre la Guerra Fredda e la minaccia nucleare facevano sentire tutti prossimi alla fine del mondo. La sfida lanciata è davvero epocale e Gregory trova come alleato un biologo e statistico, l’inquietante Dr. Sciss. Scienza e ragione, i pilastri dell’illuminismo, si confrontano con qualcosa verso cui provano una paura intima e profonda: l’inspiegabile. Perché ciò che sembra inafferrabile è proprio il movente. I dialoghi tra il poliziotto e l’uomo di scienza sono il cuore di un romanzo che segna una nuova frontiera per il racconto di detection. Una storia che non poteva avere ambientazione più adeguata della Londra trasfigurata e il cui lato oscuro va ben oltre la nebbia gelida e umida. Non pensiamo di essere blasfemi nell’affermare che solo le migliori storie di Dylan Dog siano in grado di competere con la Londra di Stanislaw Lem. Di una cosa, infine, possiamo essere sicuri: nessuno potrà fare spoiler ai danni dei lettori de “L’Indagine del Tenente Gregory” ed il motivo lo saprete solo leggendo. Stanislaw Lem, 'L'indagine del tenente Gregory', Bollati Boringhieri, 2007. I libri bellissimi che vorresti regalare ma che, dopo solo una settimana, sugli scaffali della libreria non ci sono più;
I libri che hai preso in prestito in biblioteca da ragazzo ed ora vorresti avere nella tua libreria ma sono diventati introvabili; I libri che non vengono più tradotti perché tanto non li comprerebbe più nessuno; I libri facili, degli scrittori difficili, che non ti fanno leggere perché sono troppo facili, anche se sono bellissimi; I libri facili, degli scrittori difficili, che non ti consigliano di leggere perché tanto saranno difficili; I libri difficili che però sono così belli che vale la pena di leggerli; I libri che non hai mai letto perché li dovevi studiare, ma ora che puoi solo leggerli sarebbe un peccato non farlo; I libri che non hai letto perché piacevano ai tuoi professori, ma ora sai che i tuoi professori qualche volta avevano ragione; I libri che semplicemente ti sono piaciuti. |
Simone Farello feat Gyorgy LukacsOgni forma d'arte è definita dalla dissonanza metafisica della vita. Archivi
Ottobre 2017
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