Un altro grande classico delle letture estive sono i fumetti. Una forma espressiva in Italia piuttosto reietta, come tutte le manifestazioni artistiche autenticamente popolari, maltrattate e ostracizzate dall’idealismo crociano e dai suoi persistenti derivati accademici. Così se al piano nobile di una librerie francese novità delle BD, le bandes dessinées, il nome che i francesi danno ai fumetti, sono esposte accanto ai best sellers e le novità di narrativa e saggistica; in Italia i fumetti si comprano quasi esclusivamente in edicola e nelle librerie, di solito, sono relegati in qualche angolo oscuro, ben distanti dai libri seri. Periodicamente, per iniziativa di un intellettuale illustre, qualche fumetto riesce a farsi spalancare la torre d’avorio della cultura alta, come è accaduto ai Peanuts grazie all’autorevole raccomandazione di Umberto Eco. Ma anche la storia della più importante rivista italiana dedicata ai comics, ‘Linus’, è quella di un ghetto, di una segregazione. Il fumetto, per essere accettato in società, doveva entrare a far parte del salotto buono della sinistra intellettuale, acquisire una dimensione politica, elevarsi di livello, allontanarsi dal popolo e piacere a quei pochi che sono in grado di “capire davvero”. Gli autori, per affermarsi, dovevano riuscire a farsi riconoscere come artisti: Crepax e Pratt sono tra coloro che ci sono riusciti diversamente da Tex Willer, che piaceva come personaggio – perché stava con gli indiani e non con i cowboy – ma i suoi albi formato Bonelli passavano direttamente dall’edicolante di fiducia al comodino delle case popolari, senza che nessuno considerasse i suoi autori quali artisti di un certo pregio. E’ andata avanti così per decenni: il popolo leggeva i fumetti; gli intellettuali studiavano i fumetti e decidevano quelli che avevano quel qualcosa in più, lasciando il popolo fuori dalla porta. Che tristezza. Poi ci ha pensato la moda. Quando, per qualche arcana coincidenza, un fumetto diventa “in”, il mercato editoriale italiano si concentra totalmente sul fenomeno del momento, sfruttandolo sino a quando dura l’onda. Accade oggi con il successo di Zerocalcare ed è accaduto trent’anni fa con Dylan Dog. Parlare male di Dylan Dog è ai giorni nostri considerato quasi blasfemo perché nel frattempo è riuscito a farsi accettare dalla cultura sopraffina; ma per almeno i primi quattro anni ha circolato all’interno di una setta di fanatici, che tutto avrebbero voluto tranne che il loro personaggio preferito diventasse una sorta di pop star, sino ad essere il protagonista di un film con Rupert Everett e Anna Falchi (sic!). La cosa inorridì i lettori storici più di quanto li inorridisse leggere di squartamenti e zombie. Ma quando Dylan Dog, come l’horror e l’heavy metal, passò di moda, l’onda delle alte tirature si ritirò, lasciando la serie nelle secche e nelle discussioni ormai piene di rancore fra i lettori rimasti. Zerocalcare è avvertito. Nel 2016 Dylan Dog ha festeggiato il 30° compleanno della testata, un’occasione che è stata utilizzata per sfruttare sul mercato l’effetto nostalgia. Ma non è una nostalgia canaglia. La pubblicazione, in edizione rilegata e a colori, dei numeri 16 e 17 della serie regolare riesuma tutta la bellezza del personaggio. Innanzitutto ‘Il Castello della Paura’ e ‘La Dama in Nero’ sono disegnati dalla coppia Montanari & Grassani, la cui immagine di Dylan Dog è, insieme a quella del primo copertinista Claudio Villa, l’ideale archetipico dell’eroe: quando si chiede ai vecchi lettori di dire quale è il vero volto di Dylan, quasi tutti vi risponderanno quello di Montanari & Grassani. Nella trasposizione a colori si perdono, purtroppo, molti dei giochi di ombra così efficaci nel bianco e nero originale, ma rimane intatta l’atmosfera gotica della storia, giocata tra l’ironia e la tensione; tra l’enigma della camera chiusa e l’evocazione del soprannaturale. In molti attribuiscono il successo di Dylan Dog alla capacità del suo tormentato ideatore, Tiziano Sclavi, di scavare negli abissi esistenziali della società moderna per farne emergere i demoni sotto forma di incubi, spettri e creature fantastiche. Per Sclavi il mondo è solo uno dei tanti inferni possibili e quelli che chiamiamo “mostri” sono una proiezione delle nostre paure, della nostra incompatibilità con la vita. E’ indubbio che Dylan Dog sia anche questo. Ma ‘La Dama in Nero’ è la dimostrazione che su queste fondamenta filosofiche, Sclavi è riuscito ad erigere delle storie così ben congegnate da diventare, è il caso di dirlo a chiare lettere, dei classici. Punto di riferimento mai taciuto da Sclavi è Edgar Allan Poe, uno scrittore che sulle proprie nevrosi modellò storie di chirurgico terrore, rivelando per primo il lato oscuro di un mondo che credeva di essere entrato in un’era di progresso inarrestabile. Poe contestava la sovranità della scienza, dando corpo e voce all’inspiegabile; Sclavi contesta la sovranità della burocrazia e dei vincoli sociali dando voce e corpo all’inconsolabile che c’è in ognuno di noi. Sclavi ha fatto di Dylan Dog un classico perché non ha mai tradito la cultura popolare di genere a cui appartiene, senza mai avere l’ambizione di scrivere un fumetto colto o, come piace dire ai critici, un “fumetto d’autore” (una delle espressioni più razziste e settarie che esistano). Il centro di tutto sono sempre delle belle storie, dall’intreccio tradizionale, dove il lettore sa sempre orientarsi, trovando l’appagamento della ripetizione che è l’essenza della letteratura seriale. Sclavi è riuscito a dare all’Italia una grande saga nazional popolare, ed è questo il merito che gli andrebbe riconosciuto rileggendo un lavoro come ‘La Dama in Nero’, che riesce ad essere nuovo senza contemplare niente che non sia già stato scritto. Quello che rende Dylan Dog un eroe degli anni ’90 è la sua ironia. Edgar Allan Poe scolpiva i suoi racconti nella pietra dura della cupezza, Tiziano Sclavi nelle screziate schegge del disincanto. Lo stesso sentimento che portò l’autore ad abbandonare la sua creatura, riuscendo nell’impresa in cui fallì Sir Arthur Conan Doyle. Questi fu costretto dai suoi lettori a resuscitare Sherlock Holmes, un personaggio che ormai considerava una prigione; Tiziano Sclavi ha lasciato vivere Dylan Dog eclissando sé stesso. Molti attribuiscono a questa frattura il declino qualitativo di Dylan Dog. Un declino discutibile, perché in buona parte determinato da quello che potremmo definire il “paradosso del pregiudizio del successo”: quando la moda si rivolge altrove i più delusi sono gli entusiasti della prima ora, quelli che non volevano che il loro personaggio fosse il personaggio di tanti. Sono quelli del “c’eravamo tanto amati”, del “niente sarà più come prima”. Ma la verità è probabilmente più complessa. Dylan Dog è stato per il fumetto e la letteratura quello che Kurt Cobain è stato per la musica rock: l’ultimo sussulto, prima della fine di molte cose e l’inizio di un nuovo modo di fruire la cultura. Ma come tutti i classici Dylan Dog resiste e continuerà ad essere disegnato, in un eterno tributo ad una grande forma d’arte. Il ritiro dalla scrittura di Sclavi è stato come il suicidio di Cobain: le loro opere rimangono, immortali. Tiziano Sclavi rimane anche uno dei pochissimi scrittori popolari della narrativa italiana. Narrativa? Gli amanti del fumetto definiscono la loro passione “le nuvole parlanti”: è un’immagine di straziante bellezza, che dipana tutta la meraviglia di testi che si uniscono al disegno, una forma d’arte che non ha bisogno di nessuno sdoganamento, basta lasciarla ai lettori e ai loro sogni. Quando leggerete ‘La Dama in Nero’ non importa se credete o no ai fantasmi, i fantasmi siete voi.
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Dashiell Hammett, indiscusso maestro del genere hard boiled (o anche scuola dei duri, quando i detective escono dai salotti borghesi e devono fare i conti con la vita reale), è noto al grande pubblico per alcuni titoli che sono stati adattati per il grande schermo e la faccia da duro dal cuore tenero di Humphrey Bogart, su tutti ‘Il Falcone Maltese’. Questo ha fatto dimenticare l’Hammett più irregolare che è, ovviamente, quello migliore. Diversi studiosi hanno sostenuto che il poliziesco, in quanto genere letterario tipicamente borghese, mostri il delitto, la ricerca e la scoperta del colpevole ma ometta completamente il conflitto di classe che genera il crimine. E’ un’affermazione spesso vera, ma Hammett sapeva di cosa voleva parlare e di cosa stava parlando. Oltre ad essere un convinto marxista (oggi sembra strano, ma negli anni ’30 del XX Secolo in USA c’erano moltissimi comunisti), aveva lavorato per la famosa e famigerata Agenzia Pinkerton, che forniva servizi si sicurezza privata a governi, liberi cittadini e, soprattutto, ai padroni. Nel periodo in cui in Italia il lavoro sporchissimo contro gli scioperi e i sindacati lo facevano le camicie nere oltreoceano ci pensavano delle autorevoli aziende ben posizionate nel mercato della repressione del dissenso, in accesa ma rispettosa concorrenza con la malavita organizzata. Nelle file dell’Agenzia Hammet ci era finito per il motivo più reale possibile: il bisogno di un lavoro e di un salario. Da questa esperienza il romanziere non trarrà solo ispirazione, ma l’esigenza di rappresentare l’alienazione insita nello sfruttamento del lavoro e la violenza del sistema capitalista. Nasce così Continental Op, anonimo protagonista del primo romanzo di Hammet, ‘Red harvest’. Continental Op non c’entra nulla con Bogart, è una semplice funzione dell’ingranaggio economico e sociale. Indaga e agisce in un contesto degradato dove la narrazione è interamente volta a mettere a nudo quei rapporti di classe che generano la violenza e il crimine. Figura assolutamente brechtiana Continental Op si muove in uno scenario che sembra davvero un’Opera da Tre Soldi ambientata in California. Paradossalmente questi pregi sono quelli che hanno portato all’oblio il duro, durissimo ‘Red Harvest’, ‘Piombo e sangue’ nelle introvabili edizioni italiane (l'ultima di Guanda). Eppure il romanzo è intenso, avvincente, incalzante: un autentico gioiello della suspense, come ben capì Sergio Leone che lo riadattò in ‘Un Pugno di Dollari’. Sergio Leone per la sceneggiatura di quel film fu accusato di plagio niente meno da Akira Kurosawa, che sosteneva che l’autore italiano avesse bellamente copiato ‘La sfida del samurai’. La difesa del maestro dello Spaghetti Western fu che… avevano copiato tutti e due. ‘Red Harvest’ è un capolavoro della letteratura popolare e non ha perso nessuna delle sue qualità narrative. Il fatto che sia dimenticato è un vero crimine, per cui nessun colpevole verrà mai punito. Ma i libri possono sempre evadere dalle segrete della memoria: grazie ai lettori. |
Simone Farello feat Gyorgy LukacsOgni forma d'arte è definita dalla dissonanza metafisica della vita. Archivi
Ottobre 2017
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